IL KARATE
Le origini del Karate ci raccontano una storia di adattamento, resistenza e ricerca spirituale. Nato dalla necessità e dall’influenza di culture diverse, il Karate ha attraversato i secoli trasformandosi da sistema di autodifesa contadina a percorso educativo e filosofico, capace di plasmare carattere e disciplina in chi lo pratica.
Chi oggi indossa un karategi e si allena nel dojo, non sta solo imparando a difendersi. Sta camminando lungo un sentiero antico, fatto di rispetto, determinazione e crescita interiore.
Le origini del Karate: dalle isole di Okinawa all’arte della disciplina
Il Karate, oggi riconosciuto in tutto il mondo come una delle più complete arti marziali giapponesi, affonda le sue radici in un contesto molto più complesso e affascinante di quanto si pensi comunemente. Le sue origini non sono puramente giapponesi, ma nascono da un crocevia di influenze culturali, politiche e filosofiche che si intrecciano tra la Cina, le isole Ryukyu (in particolare Okinawa) e l’antico Giappone feudale.
Okinawa: crocevia di culture
La vera culla del Karate è Okinawa, l’isola principale dell’antico Regno delle Ryukyu, un territorio autonomo per secoli, situato tra il Giappone e la Cina. Per la sua posizione geografica, Okinawa divenne un nodo strategico per i commerci e gli scambi culturali, in particolare con la Cina della dinastia Ming. Fu proprio da questi rapporti che l’isola ricevette forti influenze in campo militare e marziale.
Uno dei sistemi cinesi più studiati fu il Kenpō cinese (o Chuan Fa), un insieme di tecniche di combattimento codificate, che si integrarono con le pratiche locali di combattimento corpo a corpo, dando vita a quello che in seguito sarebbe diventato il “Tode” (letteralmente “mano cinese”).
Il bando delle armi e la nascita dell’arte a mani nude
Nel XV secolo, il re Sho Shin del Regno Ryukyu, nel tentativo di limitare le rivolte e rafforzare il controllo centrale, vietò l’uso delle armi ai civili. Questo provvedimento fu poi confermato anche durante la dominazione giapponese a partire dal 1609, quando il clan Satsuma conquistò Okinawa.
Senza armi a disposizione, la popolazione elaborò forme di autodifesa a mani nude e con strumenti di uso quotidiano, trasformando le tecniche marziali in una vera e propria arte. Fu in questo contesto che il Tode si evolse, fino a diventare una disciplina strutturata basata su Kata (forme), Kihon (tecniche) e Kumite (combattimento).
I grandi Maestri: da Matsumura a Funakoshi
Durante il XIX secolo, alcune figure chiave contribuirono alla codifica e alla diffusione del Karate:
Matsumura Sokon (1797-1889): considerato uno dei padri del Karate moderno, fu guardia reale e maestro di molti importanti praticanti.
Itosu Anko (1831-1915): semplificò il Karate per l’insegnamento scolastico, introducendo i kata Pinan (oggi Heian).
Funakoshi Gichin (1868-1957): il più noto pioniere del Karate. Portò l’arte a Tokyo nel 1922, su invito del Ministero dell’Educazione giapponese, e fondò lo stile Shotokan, oggi uno dei più praticati al mondo.
L’origine del nome “Karate”
Originariamente scritto 唐手 (Tode), cioè “mano cinese”, il termine fu trasformato da Funakoshi in 空手 (Karate), ovvero “mano vuota”, per adattare la disciplina allo spirito giapponese e distanziarla dall’influenza cinese.
La scelta non fu solo linguistica: la “mano vuota” rappresentava anche un concetto filosofico, ovvero l’arte di combattere senza aggressività, senza armi, con mente e corpo in armonia.
Se guardiamo all’etimologia della parola: “kara” significa scavo, spazio prodotto da un certo lavoro, spazio vuoto, immagine del vuoto. “te” è la rappresentazione di una mano vista di mezzo profilo, ma è anche il fonema di attività, mettersi all’opera. La parola giapponese kara-te, nel complesso, si compone di vuoto e mano, non il vuoto in sé, ma in relazione ad un lavoro, ad un’attività, cioè mettersi all’opera per fare il vuoto. Il termine zen ku, che indica il vuoto dell’anima, può essere pronunciato anche “kara”.
Questi concetti suggeriscono che il praticante del Karate dovrebbe allenare la propria mente affinché sia sgombra, vuota da pensieri di orgoglio, vanità, paura, desiderio di sopraffazione; dovrebbe aspirare a svuotare il cuore e la mente da tutto ciò che provoca preoccupazioni, non solo durante la pratica marziale, ma anche nella vita.
Storicamente ad Okinawa, patria di quest’arte marziale, pur essendo in uso l’accezione Karate, più spesso si adoperavano altre parole: te o bushi no te (mano di guerriero).
Nagashige Hanagusuku, maestro di Okinawa, usò il carattere giapponese per “mano vuota” nell’agosto del 1905. Ciò richiama anche il fatto che questa forma di autodifesa non fa necessariamente uso di armi.
Vuoi partecipare a una lezione di prova ?